Talento, innata visionarietà venuta fuori forzata a causa di un evento disgraziato, o forse, chissà, sarebbe successo ugualmente. E sfortuna, soprattutto, presente in egual maniera nella vita di Frida Kahlo, raccontata in questo spaccato del suo vivere liberamente tratto dal romanzo di Pino Cacucci dal titolo omonimo, “Viva la vida”, che il regista Gigi Di Luca mette in scena in questi giorni, e che abbiamo visto a Lonigo, nella stupenda cornice del Teatro Comunale. Di spalle al pubblico, a seno nudo, dapprima quasi inchiodata su un letto a baldacchino che nella bella scena di Maria Teresa D’alessio diventa una poltrona da barbiere che abbandona dopo un po’ con sforzo possente di movimento, Frida racconta se stessa a partire dall’incidente che l’ha segnata. Trafitta, violata intimamente mentre si trovava in un autobus, da una sbarra durante un sinistro con un tram. Vita di sofferenza di cui in maniera lucida cerca di voltare le pagine, diciott’anni appena compiuti e tutto da reinventare attraverso atroci sofferenze. Una giovane donna che inizia a capire cos’è la durezza del vivere, lei, che proprio fortunata non lo è stata già da bambina quando le veniva diagnosticata una specie di poliomelite, e si trascinava una gamba presa in giro dai suoi coetanei. Situazione che la forgia tuttavia, la fa già diventare altro, oltre la ragazzina che c’è in lei. Una prova anticipata di quello che sarebbe accaduto dopo, quando è tutto il corpo a essere martoriato duramente, che condiziona inevitabilmente e male lo scorrere dei suoi anni. Ma Frida è ben altro, è caparbietà diffusa, volontà destinata a crescere e a non finire, ecco dunque la pittura come arma contro l’immobilità, i ritratti sofferti, in un corpo a corpo metafisico con il destino, se non altro destinato alla parità. Immobile, o quasi, Frida Kahlo subisce ma si ribella e con il groppo in gola dice di sé, del suo smisurato amore – odio per Diego Rivera, un “avvelenamento, il sole e la luna”. Dipinge e dipinge, Frida, prima autoritraendosi svelando i suoi pensieri e le battaglie quotidiane, poi passando a inserire elementi surrealisti in contesti messicani intrisi di memoria, dolore, sensualità, un tripudio di colori e umori, dove talvolta l’eros rimbalza e rapisce. Ma è la Kahlo che qui non si vede, quella che sta sempre “a dipingere l’inferno della solitudine”, come afferma. Combattiva e irriducibile, ferma nelle convinzioni (anche) di ripagare la moneta dei tradimenti di Rivera facendosi amanti le sue, di amanti, donna che ama le donne, riamata, con il monito che chi non ha mai provato a farlo non sa cosa si perde, così affronta la vita avversa che la incontra ogni momento. Poi c’è l’inevitabile epilogo, il commiato dalla terra, il saluto a una vita difficile ma piena, vestita come una sposa. Attorno a lei in questa messa in scena si muovono due figure femminili, la Pelona, la morte, che sul suo corpo dipinge la sua stessa arte, e che quasi la coccola dolce, inesorabile, interpretata dalla body painter Veronica Bottigliero, e la cantante Chavela Vargas, la sua ultima compagna di vita e amante, che le intona canti struggenti e penetranti di meloncolìa, straordinariamente intensi, suonati con passione, amore infinito, interpretata da Lavinia Mancusi. La regia di Gigi Di Luca compone e scompone, va dritta al sodo dell’anima di Frida e dei suoi variopinti pensieri, agile e definita. Frida Kahlo è Pamela Villoresi in una grande prova d’attrice, in un lamento esterrefatto e lancinante, meditativa e razionale, che fa della pittrice messicana un ritratto pieno di poesia che viene dal cuore e lascia strascichi per sempre, anche di desiderio mai assopito. Naturalmente, ed è giusto così, molti applausi del pubblico, e chiamate affettuose.
Francesco Bettin
Fonte: Sipario.it